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La storia 
di Martina

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Agata è nata alle 20.51 e mi è stata subito portata via: per salvarle la vita, questo è certo, ma nessuno mi aveva preparata ad un dolore così grande. "SCUSA" è stata l'unica parola che sono riuscita a dirle nei pochi istanti in cui l'ho vista prima che fosse trasferita in un altro ospedale.

La prima volta che l'ho vista dentro quella culla termica, il mio cuore si è spezzato in mille pezzi. La guardavo dal vetro coperta da camice, cuffia, guanti, col terrore di toccarla, avrei voluto che si aprisse una voragine nel pavimento e che mi inghiottisse. AVEVO PAURA. Se le cose erano andate così male, sarebbero potute andare peggio?

Abbiamo raggiunto il punto più basso qualche giorno dopo quando Agata è arrivata a pesare 1050 grammi dopo il calo.

Di li a poco però iniziano le buone notizie, "Gli esami vanno bene" "Agata fa passi da gigante", "Oggi abbiamo tolto la ventilazione". 40 giorni dopo la sua nascita, quando l'infermiera mi ha detto "Sai che puoi prenderla in braccio oggi?", sono scoppiata in un lungo pianto liberatorio e lei mi ha detto "Grazie perchè ti sei mostrata fragile, mi hai ricordato di non dare per scontato quanto importante sia per voi genitori ogni piccolo passo dei vostri figli".

Il 30 settembre finalmente dopo 56 giorni di ospedale la nostra famiglia si è riunita e le ferite hanno iniziato a rimarginarsi.

Ora che siamo a casa e ancora non riesco a smettere di stupirmi di quanto Agata sia cresciuta e paragonarla all'immagine che ho di lei, quella dei suoi 1050 grammi, con quelle gambine sottili che guardavo con tanto timore, con quel viso che cercavo di immaginare senza i supporti per la ventilazione, che ho visto per intero solo il giorno in cui le è stato levato il cerottino che teneva fermo il sondino per l'alimentazione. Ma la gente non lo sa. Ogni volta ad ogni “Che piccola” mi si stringe il cuore, vorrei rispondere “E che non l'avete vista appena nata”, ma mi limito ad accennare un sorriso.

Noi genitori dobbiamo affrontare un distacco innaturale, lottiamo con il senso di colpa e di inadeguatezza nei confronti dei nostri bambini che sono lì, soli lontani da casa e anche nei confronti dei fratellini che sono a casa e che vengono travolti da situazioni come questa. Abbiamo bisogno di essere sostenuti con empatia sia durante il ricovero, ma anche dopo le dimissioni perchè siamo forse più fragili dei nostri figli che lottano per tornare a casa.

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